2° Edizione W.A.D. 2022
Relazione sul progetto HOME / LESSICO SULLA VITA DI COPPIA
Ilaria Sileo
Le case sono, sempre, formule spaziali per vivere l’amore, in tutte le sue manifestazioni1.
E.Coccia
HOME / LESSICO SULLA VITA DI COPPIA è un progetto che ha tentato di interrogarsi sulle dinamiche relazionali della vita di coppia durante il lockdown perchè, a due anni dopo lo scoppio della pandemia, sentiamo ancora la necessità di riflettere sui cambiamenti che ci ha portato la chiusura data dall’emergenza sanitaria.
Le coppie, in particolare, hanno dovuto mettere fortemente alla prova la loro relazione poiché
‘costrette alla convivenza forzata’ in quel luogo dove la nostra beatitudine e il resto del mondo si sovrappongono, la casa2.
Per alcune relazioni il lockdown ha avuto effetti negativi, portando a una separazione.
L’Associazione nazionale divorzisti italiani ha registrato, nel 2020, un aumento del 60% delle separazioni coniugali rispetto all’anno precedente.
Al contrario, c’è chi ha avuto modo di apprezzare la nuova condizione grazie alla scoperta di
nuove emozioni e passioni nei confronti dell’altro, comprendendo anche l’esistenza di un sentimento capace di andare oltre ogni difficoltà.
Questo progetto, nato dalla collaborazione tra l’organizzazione nonprofit WindMill ART POWER PLANT e l’associazione culturale per le arti contemporanee SINCRESIS a Empoli,
prevedeva la realizzazione di un’opera partecipata con l’artista americana Susan Harbage Page -
artista che sollecita la cocreazione tramite il coinvolgimento e la partecipazione al suo lavoro - tramite una call, aperta a tutti, per inviare materiale rappresentativo della vita di coppia durante quei mesi.
Le fotografie ricevute sono state protagoniste di un momento di riflessione collettivo per le persone presenti il 15 settembre negli spazi di Sincresis. Grazie alla presenza mediatrice di una psicologa, ognuno di noi ha avuto la possibilità di riflettere su quei momenti, proiettando il nostro vissuto su fotografie che non ci appartenevano. Successivamente, con la scoperta delle storie personali rappresentate da quegli scatti, abbiamo notato come questa esperienza sia stata vissuta emotivamente in maniera diversa da ognuno di noi e come ogni coppia abbia manifestato in maniera differente le proprie tensioni e passioni. Ogni partner ha potuto comprendere quale fosse il proprio spazio, come dividersi le mansioni quotidiane, ritrovarsi dopo periodi di distanza fisica ed emotiva oppure comprendere la necessità di uno spazio individuale nel quale potersi dedicare alla cura di sè.
Il coinvolgimento e la partecipazione a questo momento ha portato Susan Page a chiederci di mostrarle delle pose corporali che assumevamo durante quel periodo di chiusura, rispecchiando quei momenti con il nostro corpo. C’è chi ha deciso di farsi fotografare come se fosse al computer, chi come se fosse sul divano, chi come stesse camminando in casa, e chi come se andasse di nuovo a fare la spesa con la mascherina o mentre prendeva lezioni di salsa via webcam.
Le fotografie scattate, stampate in formato 50x70, sono state unite alle testimonianze ricevute precedentemente da ogni coppia, realizzando così l’opera partecipata dal titolo Corporal Cartography in the time of Covid, che è stata posizionata sul muro frontale all’entrata, come presentazione iniziale delle altre opere esposte.
Il giorno seguente, con l’inaugurazione serale, ogni artista lì presente ha avuto la possibilità di raccontare la propria esperienza di coppia e spiegare la scelta di restituzione di quel periodo così intimo e personale. In mezzo a quelle opere, l’installazione di Susan si è dimostrata come una mappa rappresentativa della nuova ‘quotidianità’ vissuta in ambito domestico durante l’emergenza sanitaria. Guardando quelle foto chiunque poteva rispecchiarsi e vedere l’umanità nascosta dietro le opere d’arte esposte quel giorno alla galleria Sincresis.
Questo progetto, nato dalla necessità di riflettere su ciò che è stato vissuto, ha dimostrato la sua vitalità grazie alla possibilità di essere un continuo work in progress con future integrazioni personali di altre coppie e dimostrandosi sempre valido in vista di esiti diversi e molteplici.
Grazie alle collaborazioni e ai complementi produttivi avvenuti in quelle due giornate, HOME /
LESSICO SULLA VITA DI COPPIA si è dimostrato, come afferma Umberto Eco, una vera opera aperta:
«come proposta di un ‘campo’ di possibilità interpretative, come configurazione di stimoli dotati di una sostanziale indeterminatezza, dove il fruitore è indotto a una serie di letture sempre variabili [...] come ‘costellazione’ di elementi che si prestano a diverse relazioni reciproche»3.
Bibliografia
Sitografia
COCCIA 2021
E.Coccia, Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, Einaudi editore, Torino 2021
Eco 2016
U.Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano 2016
Video per Ernestine
Video Art Action Florilegio per Ernestine
Maria Grazia Gargiulo – Laura Conforti – Claudia Bonasi – Laura VDB Facchini
Maria Grazia Gargiulo – Laura Conforti
Maria Grazia Gargiulo – Laura Conforti – Claudia Bonasi – Laura VDB Facchini
Franca Zoccoli
Roma com’era
nei ricordi di una nonagenaria
testo di Franca Zoccoli
Negli anni Sessanta Roma era una città meravigliosa, forse la capitale più bella del mondo, certo la più ricca di storia. Risorta dai disagi della guerra, si poteva percorrere su marciapiedi perfetti, privi di erbacce lungo i muri dei palazzi, lungo strade con l’asfalto levigato oppure, in alcuni luoghi come in parte del centro, su sampietrini ben collocati che formavano una superficie liscia. Le buche erano una rarità e venivano riparate in tempi brevi: potevamo ammirare i monumenti grandiosi, i palazzi di pregio, le celebri fontane, senza paura di inciampare, potevamo passeggiare nei parchi, che ne fanno la città più verde d’Europa, sicuri di trovarli ben mantenuti, con le siepi regolari, gli alberi potati da giardinieri esperti, viali e vialetti in ordine. Era giusto, pensavo, che Roma si attraversasse in superficie e Londra per via sotterranea, date le caratteristiche climatiche e ambientali delle due città.
Erano gli anni del boom economico e, tranne una breve crisi nel 1964, detta “la congiuntura”, l’Italia aveva raggiunto un benessere diffuso mai prima conosciuto. In un certo senso si credeva ancora nelle “magnifiche sorti e progressive”. Sarebbe trascorso ancora più di mezzo secolo prima che apparisse lo spettro del corona virus, del resto inimmaginabile appena un anno fa’. La vita era rilassata; andare in centro nel pomeriggio inoltrato, anche senza avere in programma particolari commissioni, era un piacere al quale “le signore”, e non solo, rinunciavano malvolentieri. Bisogna sapere, fra l’altro, che l’orario degli statali era dalle otto alle due (sabato incluso) e dunque lasciava molte ore libere.
Forse è facile dopo una certa età diventare un laudator temporis acti, ma è innegabile che negli ultimi tempi ci sia stato un dilagare della volgarità. Allora le vetrine erano scintillanti ma allestite con sobrietà e buon gusto, guardarle era una gioia anche quando non si potevano fare acquisti. I passanti erano educati e vestiti dignitosamente. Del resto gli italiani erano noti per la loro eleganza e si distinguevano dai turisti, anche europei, soprattutto per le scarpe. Vorrei ricordare agli attuali esibitori di nudi, spesso repellenti, che le scimmie hanno perso il pelo quando hanno cominciato a indossare delle vesti, grazie alla nascita della tessitura. Da noi negli anni Sessanta, stoffe e fogge erano le più eleganti a livello planetario. Non per niente si è giunti al successo globale del ‘made in Italy’.
I cani erano rari e, anche per questo, a parte la civiltà dei proprietari, non si doveva fare attenzione a dove si mettevano i piedi. In genere si andava in centro con i mezzi pubblici che erano affidabili e abbastanza frequenti. Anche la microcriminalità era piuttosto contenuta. L’automobile era ancora un privilegio e parcheggiare in centro non era un grande problema.
Spesso si lasciava la macchina a Piazza del Popolo, punto di partenza delle strade del tridente: Via del Babuino, il Corso e Via Ripetta, lungo le quali si trovavano quasi tutte le gallerie più importanti. Da tempo chiusa al traffico, oggi la piazza è senza dubbio molto più bella, con la geniale architettura del Valadier pienamente godibile, eppure rimpiango quel gigantesco parcheggio della mia giovinezza. Come in un villaggio alla messa domenicale, in quell’enorme villaggio che era Roma, verso le 5,30/6, dal martedì al sabato, si era certi di incontrarvi amici ed artisti, noti o emergenti. Lì le più audaci sfoggiarono le prime minigonne, gli stivaloni alti fin sopra il ginocchio, gli abiti a trapezio con un ciondolone al collo.
Nella piazza, intorno alla fontana dei leoni, fino alle muraglie di cinta, senza avere precisi appuntamenti, si girava fra le macchine, come in un labirinto metallico, alla ricerca di qualche conoscente o soltanto di incontri fortuiti. Poi si partiva per la visita delle mostre, che erano per lo più stimolanti e di buon livello. Spesso lo spunto era dato dall’inaugurazione di una personale o di una piccola collettiva. In tali casi non mancava mai un rinfresco: non stantie noccioline e uno scadente prosecco, ma vino di qualità, tartine, pasticceria mignon ecc. Eravamo ricchi e ci sembrava naturale, non ce ne rendevamo conto.
Allo stesso modo ci sembrava naturale girare tranquilli anche la sera, senza temere spintoni e scippi.
Artiste attive a Roma negli ultimi tre decenni del novecento
Durante gli ultimi tre decenni del secolo scorso la vita culturale a Roma era molto vivace, anche nei cosiddetti anni di piombo. Un notevole contributo è stato dato da artiste con le più varie scelte di campo. Alcune hanno raggiunto fama internazionale, come ad esempio Mirella Bentivoglio, Maria Lai, Tomaso Binga, Carla Accardi, alcune hanno avuto riconoscimenti non del tutto adeguati, altre infine sono state quasi dimenticate. Desidero qui ricordarne alcune, iniziando da quella che vince il primo premio dell’obsolescenza:
Lilli Romanelli
Dopo il diploma dipinge, per qualche anno, piccoli quadri figurativi, ma raggiunge i risultati migliori nel periodo dell’informale con grandi tele contraddistinte dalla gestualità. “Ho bisogno di spazio per esprimermi” dichiara. Non partecipa a gruppi e ha scarsi rapporti con altri artisti, ma è provvista di antenne sensibilissime all’attualità. Si cimenta così nella nuova figurazione e nella performance, trasformando il proprio corpo in accezione estetica. Da ricordare anche i disegni: tessiture a trattino di penna, di una perfezione millimetrica, quasi prodigiosa. Sulle “maschere” dell’ultimo periodo va invece steso un velo pietoso: la vecchiaia non faceva per lei. Come persona era divertente, simpatica. Le piaceva recitare la parte di “artista” e apparire stravagante. Una volta si presentò vestita da astronauta, un’altra con un abito a trapezio e una sveglia al collo. Ma nel lavoro era molto seria, meticolosa e anche capace di sottoporsi a fatiche fisiche, se lo riteneva necessario. Non ha mai venduto un’opera, per un attaccamento morboso ai propri lavori e grazie al fatto di appartenere a una famiglia molto benestante. Ha effettuato in questo modo una sorta di autocancellazione che si perpetua dopo la morte, con i suoi quadri sepolti in un container per disaccordi fra i numerosi nipoti.
Franca Sonnino ha avvertito presto l’esigenza di lavorare nello spazio e inventa qualcosa di nuovo per realizzare opere tridimensionali che non avessero però la pesantezza del marmo o del bronzo. Si è distaccata gradualmente dalla pittura prima inserendo nel quadro spaghi e altri elementi aggettanti, poi passando a intrecci, maglie lavorate con i ferri, reti annodate, per accamparsi infine nello spazio con vigorose strutture sempre di marca tessile. In questo modo l’artista unisce materiali e procedimenti da sempre associati alla donna – il filo, la tessitura – a una vocazione architettonica che si è andata manifestando sempre più chiaramente. A cominciare da un’autentica dichiarazione di poetica, il Muro appeso a un chiodo, una parete in costruzione, fatta di mattoni forati, accostati e sovrapposti, realisticamente realizzati in filo color mattone su un’anima di filo metallico. Ma è un muro senza peso, si può appendere a un chiodo, poiché ha tutta la leggerezza della fantasia. Le opere della Sonnino giungono a compimento con una crescita organica, maglia annodata dopo maglia. Come i prodotti di natura, non sono mai regolari o perfettamente simmetriche. Ne derivano costruzioni senza peso di sorprendente modernità. Se è spontaneo l’accostamento a dati naturali come tele di ragno, crisalidi disseccate o corazze di insetti, si impone anche il rinvio a esperimenti moderni nel campo dell’architettura.
Gisella Meo è un’artista ad ampio spettro. Nomade fisicamente sul pianeta Terra, lo è anche nell’arte. Nata a Treviso (diploma all’Accademia di Belle Arti di Venezia), dopo due anni trascorsi in Africa e altri viaggi, si è trasferita a Roma nel 1970. Vi resterà per parecchi decenni prima di scegliere una cittadina più campestre. Inizia l’attività artistica con quadri di timbro espressionista, per essere poi attratta dalla gestualità dell’action painting. Dalla pittura passa presto agli oggetti: un libro che respira come un essere vivente, moduli ritagliati che si gonfiano in onde conferendo dinamismo ad asettiche geometrie. Usa i materiali più diversi: carta, plastica, corde, cemento, lamiera, legno, tele, ma è la scoperta del “filo” che la conduce al suo repertorio più caratterizzante. Verso la metà del decennio sceglie lo spazio esterno per realizzare installazioni e interventi sul territorio. Fra i suoi lavori più incisivi “La maglia intorno alla tomba” a Cerveteri e la gabbia tessile intorno alla Torre di Bagnaia, quale segno di pace e omaggio alle twin towers, a un anno di distanza dal tragico evento.
Paradosso e ironia sono le caratteristiche dominanti nel lavoro di Anna Esposito che, deliberatamente, si pone al di fuori di qualsiasi codificata categoria. L’artista usa ogni sorta di materiale, dalla carta al metallo, con opere bidimensionali o a tre dimensioni: lo spartito con le note che diventano strade, sulle quali corrono biciclette o si riposano persone in panchina; la scatoletta di acciughe
Sempre nell’ambito del cibo, sono di particolare interesse i “cappelletti” che, cadendo da un piatto inclinato si trasformano via via in berrettini, con un rovesciamento che è fisico e semantico allo stesso tempo. Ancora fra i primi piatti, troviamo il barattolo Campbell che cita le celebri Campbell’s Soup Cans di Andy Wahrol con rinvio al New Dada e alla Pop Art USA.